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- Inserito da: Roberto Mancuso
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Per affrontare le grandi questioni del nostro tempo occorrono risposte più ampie che può dare solo un’Italia più europea in un’Europa unita e democratica. Un’Europa per il benessere e contro la povertà, per le libertà fondamentali e contro ogni forma di discriminazione, per l’accoglienza e l’integrazione con regole certe e contro l’indifferenza, per la sicurezza e contro il terrorismo. Un’Europa votata alla innovazione tecnologica e alla ricerca scientifica, alla valorizzazione del patrimonio storico e ambientale, alla tutela della concorrenza in un mercato aperto e alla creazione di opportunità di lavoro.
Vogliamo farlo a partire dall’Italia, abbattendo i muri reali o immaginari eretti dai nazionalismi, dall’odio e dal populismo e dobbiamo farlo perché la Storia ha dimostrato dove questi portano: indietro, mai avanti. È tempo di dire che per guardare al futuro dell’Italia non serve meno Europa. Anzi. Per avere – anche in Italia – più crescita, più diritti, più democrazia, più libertà, più opportunità, più sicurezza, più rispetto dell’ambiente, serve +Europa.
Coerentemente con questi principi ispiratori, il comitato direttivo dell’associazione +EUROPA redige e approva il seguente programma per le elezioni politiche del 4 marzo 2018. Contestualmente fa proprio e allega, come parte integrante del programma stesso, il testo “Un piano industriale per l’Italia delle competenze” a firma del Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e del segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli, pubblicato su IlSole24Ore del 12 gennaio 2018.
Europa: una federazione leggera verso gli Stati Uniti d’Europa
L’Europa che vogliamo non è un “superstato europeo”, bensì una federazione leggera. Come è stato già fatto con la moneta, si tratta di spostare al centro federale funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri – e le relative risorse per svolgerle: redistribuzione sociale e regionale, ricerca scientifica, reti trans-europee, controllo delle frontiere, diplomazia (inclusi aiuti allo sviluppo e aiuti umanitari), difesa.
Oggi, su ogni euro speso in ricerca e sviluppo nell’UE, solo 4 centesimi provengono dal bilancio dell’Unione. Noi vorremmo che questi ultimi fossero invece 33, cioè un terzo di tutta le spesa. Come? Destinando a grandi programmi di ricerca su scala federale l’1 % del PIL europeo.
Il controllo delle frontiere è già, per quanto riguarda almeno i movimenti delle merci, una competenza esclusiva dell’Unione europea. Ma viene svolto dalle organizzazioni doganali degli Stati membri. Noi vorremmo che si creasse una polizia di frontiera davvero europea per il controllo dei movimenti di merci e persone alle frontiere esterne.
Parlare al mondo con una sola voce è di importanza vitale per l’Europa. Diplomazia e difesa sono funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri da spostare quasi esclusivamente a livello federale. Gli Stati membri continuerebbero ad avere rappresentanze non diplomatiche nel mondo, così come forze armate nazionali di scala ridotta – sotto forma di Guardia Nazionale – potrebbero coesistere con un esercito europeo.
Il bilancio di un’Unione europea con queste competenze si aggirerebbe attorno al 4-5% del PIL europeo – oggi è pari all’1% – mentre i governi nazionali assorbono in media il 50% del prodotto dei rispettivi paesi. A questo livello il bilancio dell’Unione potrebbe cominciare a svolgere anche un ruolo di stabilizzazione macroeconomica, cosa che oggi non può fare a causa delle sue dimensioni molto ridotte. In quasi tutti i casi non occorrerebbero risorse aggiuntive ma sostitutive: per finanziare queste funzioni di governo a livello europeo verrebbero usate le risorse con cui oggi gli Stati membri le finanziano a livello nazionale. Economie di scala e buon senso portano a concludere che si otterrebbe di più e di meglio a parità di spesa.
Dal lato delle entrate, se all’Unione andassero, oltre i dazi, un’aliquota IVA di circa 20% sulle importazioni extra UE e una corporate tax europea armonizzata, dovrebbe essere possibile finanziare un bilancio dell’ordine di grandezza (4-5% del PIL europeo) citato. Altre ipotesi sono percorribili, in particolare se colpiscono esternalità negative oppure se poggiano su una base imponibile meglio definibile a livello europeo che a livello nazionale – come la web tax. Attualmente circa l’80% del bilancio risulta da trasferimenti diretti dagli Stati membri. Si tratterebbe invece di basarlo interamente su risorse proprie, stabilendo un principio di corrispondenza tra spese europee e tasse europee, attraverso una facoltà di imposizione diretta dell’Unione che oggi non c’è.
Intendiamo anche batterci per: l’elezione del Presidente della Commissione europea a suffragio universale; la trasformazione del Consiglio dei ministri dell’Unione in un Senato europeo a elezione diretta, sia per politicizzarlo, liberandolo dal controllo delle burocrazie nazionali, che per rendere i suoi processi decisionali pubblici e trasparenti; l’istituzione di una valutazione annuale dello stato della libertà e della democrazia in ciascun stato membro da parte della Commissione – o della Corte di Giustizia, o di un’agenzia ad hoc – con il mandato di monitorare il rispetto dei diritti fondamentali elencati all’art. 2 del Trattato sull’Unione europea.
Difesa europea
Che si punti o meno agli Stati Uniti d’Europa, le aree o funzioni di governo candidate a una maggiore integrazione sono quelle appena viste a proposito della federazione leggera. Così, in un discorso alla Sorbona il 26 settembre del 2017, lo stesso Macron ha proposto la creazione di una polizia di frontiera europea. Ha affermato che “all’inizio del prossimo decennio, l’Europa dovrà dotarsi d’una forza comune d’intervento, di un bilancio della difesa e di una dottrina militare comune per agire”. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 13 settembre 2017, il presidente della commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha parlato di una “vera e propria unione europea di difesa entro il 2025”. I primi passi in questa direzione sono però molto timidi. Ad esempio, la cooperazione permanente nel settore militare, inaugurata alla fine del 2017, ha finito per essere poco più di una lista di progetti di cooperazione – 17 per la precisione – che spaziano dalla creazione di un comando medico a un centro per lo scambio di esperienze in materia d’addestramento. Tutte cose lontanissime dalla creazione di un esercito europeo, fosse pure solo un nucleo di questo, e abbastanza innocue da assicurare alla Permanent Structured Cooperation (PESCO) un’adesione quasi generale (25 paesi su 28).
Vogliamo forze armate dell’Unione addestrate ed equipaggiate al meglio, dotate di elevata prontezza operativa e capacità di proiezione – ma prive di armi nucleari. Condividiamo l’appello all’eliminazione delle armi nucleari lanciato nel 2007 da Henry Kissinger, George Shultz, William Perry e Sam Nunn e rilanciato dall’allora Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel suo discorso a Praga il 5 aprile del 2009. Siamo perciò favorevoli al ritiro delle armi nucleari tattiche (bombe per aereo) statunitensi schierate in Belgio, Germania, Italia e Paesi Bassi, in parte assegnate per un eventuale uso alle aeronautiche nazionali di questi quattro paesi. Va posta, secondo +Europa, la questione di un’iniziativa diplomatica italiana per arrivare a un ritiro concordato con gli alleati della NATO di queste armi dal territorio europeo, mentre va ribadita l’importanza per la sicurezza europea e globale del Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari e del Trattato che ha eliminato le forze nucleari a raggio intermedio (INF).
Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, la Francia rimarrà l’unico Stato membro dotato di armi nucleari – e membro permanente con diritto di veto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il problema del rapporto tra un esercito europeo, che + Europa vuole equipaggiato di sole armi convenzionali, e il deterrente nucleare francese, auspichiamo si risolva nel medio-lungo termine nel quadro di un disarmo nucleare generale e completo – come quello previsto nel Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 7 luglio 2017, cui vorremmo aderissero quanto prima l’Italia e i suoi alleati della NATO. Ad interim, le armi nucleari francesi, conservando la loro consistenza e schieramento attuali, potrebbero estendere la deterrenza al resto dell’Unione europea, supplendo al ruolo svolto attualmente da quelle americane.
Governance economica dell’eurozona
È tempo di superare la stucchevole polemica anti-europea sull’austerità. L’economia europea è in forte espansione e l’Italia partecipa al processo, il mercato del lavoro migliora così come la dinamica salariale. In questo quadro, l’Italia si potrà sedere al tavolo franco-tedesco come pari tra i pari se cesserà di chiedere flessibilità per questa o quella categoria di spesa pubblica e saprà mostrare programmi di politica economica che garantiscano tre cose: la riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL, il rafforzamento della qualità dei bilanci bancari, riducendo i rischi (NPL e portafoglio di titoli sovrani), politiche mirate per il rilancio della produttività, che ristagna dall’inizio di questo secolo. Senza crescita della produttività non c’è spazio per aumenti sostenibili dei salari, dunque la domanda cresce poco e la sostenibilità del debito pubblico resta sempre in bilico.
Sulla governance dell’eurozona la Commissione Europea ha messo sul tavolo, nel dicembre del 2017, un insieme di proposte importanti che meritano pieno sostegno. Inoltre, l’Unione deve trovare una nuova intesa sulla gestione delle politiche economiche nella quale sia possibile affiancare al criterio della finanza pubblica sana, una visione proiettata verso il futuro che si basi sulla ripresa dell’integrazione – particolarmente nei servizi a rete e nel mercato digitale – e forti investimenti comuni in istruzione e nuove tecnologie. Le condizioni finanziarie favorevoli dovrebbero essere sfruttate per mobilitare risparmio pubblico e privato verso questi obbiettivi.
In questo quadro, è urgente completare l’unione bancaria, con il pilastro mancante dell’assicurazione dei depositi, e l’unione del mercato dei capitali (CMU), in modo che i grandi eccessi di risparmio possano muoversi a finanziare l’investimento produttivo nelle aree ancora in difetto di convergenza. La conduzione delle politiche economiche nazionali dovrà riflettere gli obiettivi comuni di crescita, superando le asimmetrie che hanno scaricato il peso dell’aggiustamento degli squilibri di domanda quasi esclusivamente sui paesi più deboli.
Occorre consolidare gli strumenti comuni per la gestione delle crisi, trasformando il Fondo Salva-Stati (MES) in un vero e proprio Fondo Monetario Europeo che fornisca liquidità e finanza ai paesi sotto attacco speculativo, e fornisca la linea di sostegno di ultima istanza per il meccanismo comune di assicurazione dei depositi e il fondo per la risoluzione delle banche in crisi. Le decisioni del fondo, che deve essere assoggettato a controllo parlamentare, dovrebbero essere prese a maggioranza qualificata, non più all’unanimità, in base a proposte presentate dalla nuova figura del ministro europeo delle finanze, che dovrebbe diventare motore e coordinatore delle iniziative di politica economica comune.
Non serve un bilancio separato della zona euro. Serve invece una capacità fiscale comune più forte dell’Unione per la produzione di beni pubblici europei, tra i quali un peso maggiore devono assumere le spese per la sicurezza e la difesa, quelle per le politiche comuni per l’immigrazione, quelle per l’investimento in ricerca e nuove tecnologie, quelle per l’istruzione e la creazione di percorsi di studio multinazionali. Il bilancio dell’Unione fornisce anche lo strumento adatto per aiutare i paesi membri nelle fasi di depressione ciclica, sostenere gli sforzi di riforma strutturale, assistere i paesi che muovono verso l’ingresso nell’euro.
Stato, democrazia e autonomia municipale
Sebbene il 4 dicembre del 2016 i cittadini italiani abbiano respinto le modifiche alla Costituzione proposte dal Parlamento, i problemi ai quali la riforma tentava di offrire una soluzione sono ancora tutti lì, ed affrontarli tornerà ad essere una priorità strategica della prossima legislatura, nell’ottica di un ammodernamento e di un efficientamento delle istituzioni.
Il bicameralismo perfetto è un ostacolo alla velocità di approvazione delle leggi, e un incentivo perverso al ricorso alla decretazione d’urgenza e al voto di fiducia. Va quindi superato separando in maniera netta le funzioni delle due camere.
Al fine di proteggere le generazioni future dal peso insostenibile del debito pubblico, vogliamo introdurre in Costituzione il principio dell’equità intergenerazionale, che deve informare tutte le scelte di politica economica. Il ricorso al debito pubblico per finanziare la spesa corrente, ammesso dalla Corte Costituzionale nel 1966, ha di fatto dato vita alla voragine del debito pubblico e alla proliferazione dei cosiddetti “diritti acquisiti” che hanno compromesso irreparabilmente la sostenibilità del bilancio dello Stato. Va ripristinato il senso originario dell’art. 81 della Costituzione, secondo cui ogni legge di spesa deve contemplare i mezzi per farvi fronte.
È necessario affrontare il nodo irrisolto della stratificazione dei centri di decisione locali e nazionali in grado di bloccare ogni tentativo di modernizzazione infrastrutturale del Paese in un gioco di veti, ricorsi alla giustizia amministrativa e ordinaria, trattative estenuanti che non vedono mai la fine. Un corto circuito la cui origine “costituzionale” non risale neanche alla volontà dei costituenti, ma alla recente riforma del titolo V della Costituzione.
Proponiamo un modello che preveda una distribuzione equilibrata della sovranità tra i vari poteri e livelli istituzionali, che garantisca al cittadino la partecipazione e il controllo diretto dell’azione delle amministrazioni pubbliche e che si fondi su conoscenza, concorrenza e diritto.
Per affermarne la sovranità del cittadino al livello istituzionale a lui più vicino, i Comuni e le città devono sostenersi di più su risorse proprie, finanziando così una parte significativa delle proprie spese con imposte raccolte dai residenti. Sono necessari nuovi e più efficaci strumenti di iniziativa popolari: vogliamo promuovere strumenti di democrazia diretta quali referendum propositivi, semplificandone e snellendo le procedure di raccolta delle adesioni, anche mediante l’utilizzo della firma digitale, referendum vincolanti anche su materia fiscale locale, per costituire, porre in liquidazione, vendere società partecipate o quote di controllo di queste e per fornire un servizio pubblico essenziale di interesse generale in economia. Un’alta qualità dei servizi pubblici è uno degli elementi fondamentali per il benessere dei cittadini. Proponiamo una disciplina di rafforzamento degli obblighi di misurazione della qualità dei servizi erogati e di trasparenza per i comuni.
Debito e spesa pubblica
Il debito pubblico italiano, stabilizzatosi negli ultimi anni intorno al 132% del prodotto interno lordo, è diventato una zavorra insostenibile per l’economia del paese. La spesa per interessi, pari a 66 miliardi nel 2016 (circa l’8% del totale delle spese), è un macigno nel bilancio dello Stato che determina uno spiazzamento delle risorse nell’economia. Inoltre, l’elevato stock di debito rappresenta una minaccia per la stabilità dell’intera area dell’euro e uno dei principali ostacoli al processo di integrazione delle politiche di bilancio a livello europeo.
Per affrontare il problema proponiamo il congelamento della spesa pubblica in termini nominali per la durata della prossima legislatura insieme a una rimodulazione delle tasse con taglio delle aliquote sui redditi di persone e imprese e riduzione della spesa fiscale: in tal modo si realizzerebbe una redistribuzione di risorse dal pubblico al privato e dalle rendite all’economia produttiva.
Congelare la spesa nominale significa fissarne un limite invalicabile per cinque anni, il che comporta una riduzione della spesa stessa misurata sul PIL se inflazione e crescita economica sono positive. Occorre quindi tagliare uscite correnti e agevolazioni fiscali per compensare l’aumento inerziale dei costi delle pensioni, intervenendo sulla spesa corrente sulla base delle linee guida degli ex commissari alla spending review. Tra i sussidi da tagliare, molti dei quali sotto forma di spese fiscali, includiamo quelli dannosi all’ambiente e quelli non giustificabili da fallimenti del mercato né da politiche organiche per la competitività.
La lotta all’evasione deve proseguire, con il vincolo di destinarne i proventi alla riduzione delle imposte e non all’alimentazione di nuova spesa corrente.
Tasse
Uno dei fattori di mancanza di competitività dell’economia italiana è l’eccessivo peso tributario sui redditi di persone e aziende, significativamente più elevato rispetto a quello di altri paesi comparabili. Il fisco italiano oggi prevede da un lato aliquote impositive mediamente elevate, dall’altro una pletora di esenzioni e rendite spesso prive di una giustificazione organica. È per questi motivi che la nostra proposta di riforma della finanza pubblica si realizza in due fasi inscindibili tra loro: dopo aver messo i conti in sicurezza e riportato il debito pubblico su un sentiero di discesa mediante la proposta di congelamento della spesa, proponiamo da metà legislatura un consistente taglio delle imposte sui redditi, nonché una semplificazione complessiva del sistema di imposizione tributaria. La nostra proposta si fonda su tre passaggi fondamentali.
1) Una drastica riduzione delle imposte dirette, mediante il taglio di quelle sul reddito di persone e imprese, da perseguire attraverso un abbassamento delle aliquote marginali e medie per tutti i contribuenti e in particolare per i contribuenti appartenenti al ceto medio.
2) Una semplificazione dell’IRPEF in tre aliquote: 20% fino a 40mila euro; 30% fino a 60mila euro e 40% oltre i 60mila euro, mentre l’Ires al 20%.
3) Una rimodulazione dell’onere fiscale verso le imposte indirette (con accorpamento dell’aliquota intermedia dell’IVA con quella più alta) e l’abitazione principale (oggi unica ricchezza priva di forme d’imposta patrimoniale), nell’ottica di creare un sistema tributario più equo e favorevole alla crescita economica.
Ricerca
Vogliamo difendere e promuovere il “diritto alla scienza” e la massima diffusione del metodo scientifico, sia come valore culturale che come principio che informa il processo legislativo. I finanziamenti alla ricerca, da incrementare, devono essere accompagnati da regole che proteggano e promuovano la libertà di ricerca scientifica. Sono necessarie forme di investimento continuativo nel tempo, procedure di assegnazioni trasparenti, aperte e competitive così da preparare i ricercatori italiani a competere al meglio anche nei bandi europei e internazionali. Dobbiamo allargare oltre i confini nazionali la selezione dei revisori e definire criteri di valutazione certi e ben illustrati, con regole chiare che sanzionino i conflitti d’interessi e promuovano la science integrity.
Vogliamo un’Italia che investa in ricerca il 3% del proprio PIL in un’Unione Europea che partecipi per un terzo con il bilancio federale alla spesa complessiva per la ricerca in Europa. Deve essere istituita anche in Italia un’agenzia per la ricerca che sappia indirizzare in modo strutturale e permanente gli investimenti secondo una strategia di medio e lungo periodo. È importante riuscire ogni anno a garantire ogni anno un bando PRIN (progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale) di importo pari o superiore a quello varato nel 2017.
Bisogna rimuovere gli ostacoli alla ricerca scientifica sulle malattie rare, sulla procreazione mediamente assistita, sugli embrioni e sulle biotecnologie. La normativa nazionale deve recepire correttamente quanto previsto dalle direttive europee sulla sperimentazione animale.
Scuola e università
I giovani italiani di età compresa fra i 16 e i 24 anni sono certamente molto più preparati dei loro padri o nonni, ma restano tuttora meno competenti dei loro coetanei tedeschi o francesi. Abbiamo meno laureati rispetto alla media europea, mentre gli abbandoni precoci sono ancora troppi. L’inversione di questa tendenza è una delle chiavi decisive per arrestare il declino italiano.
Non può esservi una scuola didatticamente efficace senza una effettiva responsabilizzazione di chi vi opera. La riforma del 2015 va nella direzione giusta, ma è necessario monitorarne l’efficacia e intervenire sulle criticità: criteri di valutazione (da estendere anche ai dirigenti scolastici), efficacia dei meccanismi premianti, soddisfazione degli utenti. Ogni scuola deve ricevere obiettivi formativi e essere valutata sulla base del progresso verso questi obiettivi. L’alternanza scuola-lavoro va rafforzata e resa stabile con un sistema di valutazione che innalzi la qualità dei percorsi, tutor territoriali che aiutino le scuole a incontrare le imprese e nuovi investimenti su laboratori aperti nel territorio.
Bisogna investire maggiormente nella formazione post-diploma non universitaria, promuovere con obiettivi più ambiziosi le filiere degli Istituti Tecnici Superiori, nell’ottica di creare percorsi innovativi e flessibili tra formazione e impresa e moltiplicare di molte volte la loro offerta formativa, soprattutto nel Mezzogiorno.
Per garantire maggiore uguaglianza nelle opportunità e al tempo stesso migliorare l’offerta formativa dell’università italiana, deve essere data agli studenti una reale facoltà di scelta: agli studenti meritevoli devono essere garantite le risorse, mediante borse di studio, perché possano decidere dove studiare senza essere condizionati dal reddito della famiglia. Le università migliori – individuate secondo parametri che includano la quantità e la qualità della produzione scientifica e valorizzino la reputazione acquisita tra gli studenti – devono beneficiare di maggiori risorse, mentre le università peggiori andranno penalizzate. Agli atenei deve essere garantita l’autonomia sufficiente per costruire un’offerta formativa adeguata, anche per quanto riguarda l’assunzione e la retribuzione dei docenti e dei ricercatori. Anche l’abolizione del valore legale del titolo di studio sarebbe funzionale a generare una competizione virtuosa tra atenei sulla base dell’effettiva qualità dell’offerta formativa e non di un pezzo di carta uguale per tutti.
La distinzione in compartimenti stagni del tempo della vita – una fase dedicata alla formazione e un’altra dedicata al lavoro – non è più adeguata a un’epoca in cui il progresso tecnologico richiede un continuo aggiornamento delle competenze. Il diritto alla formazione dei lavoratori deve essere effettivo e riconosciuto anche nei contratti di lavoro. Vogliamo ampliare il programma Erasmus e trasformarlo in un grande programma di formazione e mobilità europea.
Infrazioni zero
Negli ultimi anni, i governi italiani si sono dimostrati molto più attenti al rispetto della normativa europea, riducendo in modo significativo le procedure di infrazione. Ne restano però ancora molte (oltre 60 secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili). Alcune procedure riguardano il mancato recepimento di normative importanti, come il regolamento sull’iniziativa dei cittadini, o varie direttive in materia ambientale. Altre invece, riguardano il mancato recupero di aiuti di Stato e sono particolarmente gravose, come sottolineato recentemente dalla Corte dei Conti. Questa ha richiamato soprattutto le cosiddette “seconde condanne” per mancata osservanza di sentenze della Corte di Giustizia che imponevano il recupero degli aiuti di stato. Questo tipo di violazioni ha avuto un costo per l’Italia di quasi mezzo miliardo in cinque anni.
Noi proponiamo che il prossimo governo vari, nei primi 100 giorni, una legge quadro per l’attuazione di tutte le direttive non ancora attuate e per il superamento di tutte le violazioni che oggi costituiscono oggetto di procedura di infrazione, incluso il recupero di tutti gli aiuti di Stato illegittimi. Per poter pretendere cambiamenti in Europa, non servono solo conti in ordine, ma occorre dimostrare anche che l’Italia è in prima fila nel rispetto delle norme europee.
Commercio internazionale
Seppure conosciamo perfettamente gli effetti negativi del protezionismo commerciale sul benessere e sulla prosperità delle nazioni, l’idea che sia necessaria una maggiore chiusura delle frontiere alla libera circolazione dei capitali e delle merci, oltre che delle persone, è sempre più popolare. Per l’Italia, un paese tradizionalmente orientato verso l’export, quella protezionista sarebbe una prospettiva catastrofica.
Per contrastare la minaccia protezionistica è necessario potenziare il Mercato Comune, premessa fondamentale per l’Unione Politica: bisogna procedere a una maggiore integrazione fiscale, energetica, bancaria, dei trasporti e dei servizi.
L’Unione Europea ha in corso più di venti negoziati per accordi di libero scambio, che vanno portati avanti e conclusi positivamente per combattere con più efficacia il dumping sociale e ambientale grazie a clausole di reciprocità, ma anche per facilitare l’accesso a nuovi mercati anche delle nostre piccole e medie imprese e per attrarre maggiori investimenti in Europa ed in Italia.
Mercato e concorrenza
L’Europa e il suo Mercato Comune, la libertà di circolazione al suo interno di persone, capitali, beni e servizi sono la dimostrazione migliore degli effetti virtuosi della concorrenza per la generazione di ricchezza e opportunità. I settori ancora non sufficientemente aperti alla concorrenza, dai trasporti all’energia, dai servizi pubblici locali alle professioni, vanno progressivamente liberalizzati.
È necessario privatizzare le imprese pubbliche che operano in mercati concorrenziali e garantire che alla privatizzazione corrisponda un processo di liberalizzazione che eviti il fiorire di nuovi monopoli privati. Questo avrebbe il duplice effetto virtuoso di contribuire all’abbattimento dello stock di debito e di liberare energie in settori ancora parzialmente o totalmente protetti, nell’interesse dei consumatori. È tuttavia fondamentale che i processi di privatizzazione abbiano luogo in un contesto di regole limpide e in una situazione di mercato che scongiurino operazioni non trasparenti, prive di solide prospettive industriali, non remunerative per l’erario.
Bisogna andare nella direzione del superamento dell’attuale assetto proprietario delle banche, rompendo il legame perverso che gli istituti di credito – tramite le fondazioni bancarie – hanno con la politica locale, causa principale della debolezza delle banche italiane. Anche in questo settore, è necessaria più concorrenza e più apertura agli investimenti esteri.
Vogliamo mettere a gara i servizi pubblici locali, per renderli più efficienti e restituire ai cittadini il potere di governare e controllare la qualità del servizio. I Comuni e le Regioni devono definire le strategie di governo dei trasporti tramite un contratto di servizio a cui le aziende vincitrici della gara dovranno poi rigidamente attenersi. Tutte le concessioni a privati del patrimonio pubblico devono seguire criteri trasparenti di aggiudicazione e di definizione dei prezzi, coerentemente con le direttive europee, in particolare la direttiva servizi (c.d. Bolkestein). Il patrimonio demaniale può essere messo a reddito dai privati purché vi sia un ritorno economico della collettività in termini di investimenti, cura e manutenzione.
È necessario introdurre una nuova normativa sul diritto d’autore per aprire il mercato e superare il monopolio SIAE.
Impresa e sviluppo
Nel lungo periodo il benessere e la qualità della vita del nostro paese saranno dipendenti dalla capacità delle imprese di restare al passo con lo sviluppo tecnologico del pianeta, mantenendo i punti di forza che hanno finora contraddistinto il sistema Italia (a partire dalla capacità di produrre “qualità”), nel quadro di un modello di sviluppo sostenibile sotto il profilo ambientale. L’innovazione tecnologica è alla base della crescita della produttività del lavoro, dal momento che permette di creare e produrre, a parità di input, un maggiore output, o di aumentarne la qualità. In particolare oggi, con l’inizio della così detta “quarta rivoluzione industriale” caratterizzata dalla sempre più pervasiva digitalizzazione dei sistemi produttivi, l’Italia rischia di rimanere indietro, e occupare posizioni sempre più basse nella catena del valore. È quindi necessario agire su tutti i fattori di produttività, intervenendo sui tanti ostacoli “di sistema” alla crescita e allo sviluppo: dal sistema formativo alle infrastrutture materiali e immateriali, dal funzionamento della giustizia civile alla burocrazia.
È fondamentale la dimensione degli investimenti delle imprese. Vogliamo, coerentemente con quanto già fatto dal governo con il piano nazionale “Industria 4.0”, spingere le imprese a fare investimenti di qualità per produrre beni ad alto valore aggiunto. Serve costruire una rete dell’innovazione sul territorio accelerando i bandi per i Competence Center ed i Digital Innovation Hub già previsti nel Piano Industria 4.0. Serve una governance della politica industriale in grado di mettere a sistema le istituzioni pubbliche, le università, i centri di ricerca e le imprese. È necessario concentrarsi da subito sulle aree di crisi industriale complessa definendo iter accelerati per gli interventi di bonifica e infrastrutturali, prevedendo corsie preferenziali per il Fondo di Garanzia e ispirandosi a quanto previsto per le Zone Economiche Speciali.
È essenziale, oltre agli investimenti, l’apporto della ricerca, a partire da quella pubblica. Al riguardo l’Italia è in ritardo, sia per quanto concerne l’ammontare delle risorse finanziarie destinate alla ricerca, sia per quanto concerne la capacità di interfacciarsi con il mondo delle imprese. Ne consegue l’esigenza di una riforma del comparto, con un’ottica capace di superare vincoli e logiche della pubblica amministrazione.
Pur avendo un’economia più piccola e un numero di abitanti minore, l’Italia ha circa un milione di imprese in più della Francia. Si tratta per la stragrande maggioranza di micro-imprese e partite IVA, ma anche tante piccole imprese, poche medie e pochissime grandi. Questo ha conseguenze sulla produttività e competitività del sistema paese e dunque sul benessere dei lavoratori. È necessario un impegno particolare nell’individuare e rimuovere gli ostacoli burocratici e “di sistema” che impediscono la crescita dell’impresa italiana. Bisogna diminuire l’esposizione delle aziende verso le banche, favorendo l’ingresso nel capitale dei grandi player continentali, fondi di investimento e assicurativi, crowdfunding.
Agricoltura
Il sistema agricolo italiano è caratterizzato da una bassa redditività delle imprese frutto di una eccessiva frammentazione fondiaria e di una scarsa aggregazione dell’offerta, e di un utilizzo delle risorse della Politica Agricola Comune finalizzato prevalentemente a sostenere lo status quo piuttosto che a superare le cause profonde di queste inefficienze. È necessario adottare misure che favoriscano l’accorpamento fondiario e riformulare il sistema di erogazione degli aiuti diretti della Politica Agricola Comune secondo criteri che incentivino la piccola impresa agricola a cercare forme innovative di aggregazione dell’offerta.
È indispensabile dare ascolto alle richieste degli agricoltori semplificando radicalmente tutti gli adempimenti e le procedure burocratiche gravanti sulle imprese, e migliorando al tempo stesso le performance delle pubbliche amministrazioni operanti nel settore.
Agli agricoltori italiani deve essere consentito l’accesso a tutte le più moderne tecnologie disponibili, in particolare a quelle che migliorano le rese riducendo l’impatto ambientale della produzione agricola. Allo stesso tempo va rimosso il bando alla ricerca in campo aperto sulle biotecnologie agrarie.
Partite IVA e lavoro autonomo
Le partite IVA non iscritte ad albi professionali sono fra i lavoratori più svantaggiati. Coerentemente con la proposta delle tre aliquote, vogliamo costruire un sistema dove l’autoimprenditorialità sia un’opportunità e non una vessazione, sia una scelta libera e non una necessità.
Le attuali agevolazioni burocratiche vigenti per i regimi dei minimi vanno estese a tutti i titolari di partita IVA fino a 60mila euro di fatturato e l’imposizione fiscale deve essere alleggerita per tutti. I lavoratori autonomi iscritti ad albi professionali o freelance devono essere liberi di poter scegliere a chi versare i contributi previdenziali mantenendo però un’aliquota minima da versare all’INPS per assicurarsi in caso di malattia, infortunio o maternità. Va definito un vero e proprio Statuto dei Lavoratori Autonomi per garantire simmetria ed equità tra amministrazione tributaria e piccole imprese.
Va ristabilito il diritto a pagare le tasse sui redditi conseguiti sull’anno, superando progressivamente l’obbligo degli acconti per i lavoratori autonomi, a cominciare da quelli con fatturati più bassi. Vogliamo anche estendere il limite, oggi pari a 5mila euro, della compensazione automatica dei crediti verso l’erario. Gli studi di settore e il redditometro devono essere usati come strumento indicativo, senza che sia ribaltato sul contribuente l’onere della prova in caso di non congruità. È necessaria la convocazione obbligatoria del contribuente prima dell’applicazione della sanzione da parte dell’Agenzia delle Entrate, e quest’ultima deve farsi carico del rimborso delle spese del contribuente per rispondere a contestazioni fiscali nel contenzioso, qualora l’esito del procedimento abbia dimostrato la correttezza del suo comportamento. Il ravvedimento operoso deve essere esteso anche alla contribuzione INPS.
Occorre rivedere il sistema degli ordini professionali, separando le funzioni di governo e disciplina da quelle di rappresentanza delle categorie. Non si può essere insieme organismo di governo e sindacato. È anche fondamentale rivedere profondamente i meccanismi di elezione, riducendo il numero dei mandati consentiti ed eliminando requisiti di anzianità anacronistici, per evitare la cristallizzazione di rendite di posizione a danno dei giovani professionisti. In campo previdenziale, occorre promuovere il graduale passaggio a un sistema competitivo e il superamento delle casse obbligatorie.
Ambiente ed energia
È indispensabile un salto di qualità delle politiche ambientali, con l’obiettivo di costruire un nuovo modello di sviluppo sostenibile nel lungo periodo, rispettoso dell’ambiente e idoneo ad assicurare una migliore qualità della vita. Occorre un nuovo approccio che assuma la sostenibilità ambientale come stella polare nella formazione di tutte le decisioni. I più urgenti obiettivi ambientali sono la riduzione delle emissioni-serra, responsabili dei cambiamenti climatici in atto, e la riduzione dell’inquinamento dell’aria, il quale soprattutto nei centri urbani (e in val Padana) è responsabile di costi umani e sanitari enormi. Il report The Lancet Commission on pollution and health dedicato agli effetti dell’inquinamento sulla salute umana, ha evidenziato come inquinamento e povertà siano strettamente legati: l’obiettivo della riduzione di inquinamento ed emissioni non è in contrasto quindi con lo sviluppo, la crescita economica e l’innovazione tecnologica.
Per raggiungere l’obiettivo ambizioso della decarbonizzazione è necessario che la transizione sia graduale ma inesorabile, con un apporto sempre maggiore di energie rinnovabili e l’uso del gas naturale come fonte di transizione. È utile favorire disincentivi di mercato all’uso di fonti inquinanti come il sistema europeo di scambio delle quote di emissione, che garantiscano una convenienza economica alla riduzione delle emissioni, per non mettere in contrapposizione crescita economica e sostenibilità ambientale. Anche l’introduzione di una carbon tax può disincentivare i processi ad alta intensità di emissioni, nel quadro di una complessiva riduzione della pressione fiscale. Ci batteremo perché gli impegni del Governo a uscire dal carbone entro il 2025 e ottenere entro il 2030 che il 55% dell’elettricità provenga da fonti rinnovabili vengano rispettati senza compensazioni illegittime ai produttori che tardino ad adeguarsi.
Linee d’azione coerenti per l’Italia sono l’elettrificazione dei consumi energetici, compresi quelli per il trasporto privato attraverso la diffusione dei veicoli elettrici (anche ibridi in una fase di transizione) e la riduzione delle emissioni nocive nei centri urbani, quest’ultima ottenibile con il disincentivo (con misure di mercato come l’Area C di Milano) ai veicoli con motori a combustione e alle forme più inquinanti di riscaldamento degli edifici. Queste politiche devono associarsi a investimenti in potenziamento del trasporto pubblico urbano anche ferroviario (con strumenti contendibili di affidamento), alla diffusione del car sharing e bike sharing e all’eliminazione dei vincoli allo sviluppo di forme di share economy nella mobilità.
È anche necessario proseguire con le politiche per l’efficienza energetica degli edifici pubblici e privati: si tratta di investimenti con ricadute sia ambientali che economiche generalmente molto favorevoli e per questo riteniamo sia importante favorire incentivi cedibili finanziariamente.
In coerenza a tutti questi obiettivi, il primo passo per fornire segnali coerenti al sistema economico è introdurre principi di fiscalità ambientale più rigidi volti a disincentivare in generale il consumo di risorse finite, con eliminazione da subito dei sussidi pubblici alle fonti fossili d’energia, come auspicato dal “Catalogo dei sussidi favorevoli e dannosi all’ambiente” del ministero dell’ambiente e in coerenza con la nostra proposta di revisione fiscale.
La transizione al mercato del settore dell’energia deve essere completata con una regolamentazione corretta (non esosa per i cittadini rispetto alle buone prassi internazionali e nello stesso tempo mirata allo sviluppo) delle reti gestite in monopolio e una promozione senza indugi della concorrenza nei settori in competizione, limitando il potere di mercato degli ex monopolisti.
Sul piano ambientale occorre inoltre perseguire altri importanti obiettivi.
La riduzione del consumo di suolo, in coerenza con le linee indicate dall’Unione Europea e tenendo conto dell’ampiezza del processo di cementificazione che ha interessato il nostro paese, con grave impatto sull’ambiente, sul paesaggio e sulla produzione agricola. La salvaguardia e la corretta gestione della risorsa “acqua”, nel contesto di un cambiamento climatico che ne riduce la disponibilità. Il recupero di condizioni ottimali nei mari e nelle acque interne, con l’obiettivo di rispristinare e tutelare le risorse biologiche.
Una seria e coerente politica di salvaguardia dei parchi naturali e delle altre zone protette, anche con la prospettiva di ampliarne l’estensione. Una crescita della sensibilità nei confronti delle specie animali, da tradurre anche in vincoli di comportamento.
La riduzione e una progressiva eliminazione di tutti gli inquinanti immessi nell’ambiente, anche attraverso un contrasto sempre più forte nei confronti di tutti i fenomeni di illegalità connessi alla produzione ed allo smaltimento delle sostanze inquinanti.
Mezzogiorno
La questione meridionale resta ancora, a distanza di un secolo e mezzo dall’unità d’Italia, il nodo principale dell’economia nazionale. L’elemento saliente dello scenario meridionale è costituito dalla estrema rarefazione del tessuto produttivo: il tessuto di imprese presenti risulta tuttora assai limitato, e di conseguenza i posti di lavoro esistenti sono del tutto insufficienti, il tasso di disoccupazione elevatissimo, la tendenza a emigrare strutturale. Negli ultimi lustri il nodo del meridione è stato completamente rimosso dalla politica nazionale, aggravando la sensazione di abbandono e residualità diffusa in tali regioni.
Le politiche dirette a sostenere la domanda, che hanno caratterizzato l’attuale legislatura, presentano un effetto limitato nel mezzogiorno. La crescita dell’economia meridionale richiede un programma straordinario di investimenti diretto ad allargare il tessuto di imprese. Sono necessari investimenti sulle infrastrutture fisiche e immateriali (a partire da quelle finalizzate a facilitare la movimentazione e la spedizione delle merci prodotte in loco) e una politica di credito agevolato. In alcune aree strategiche può essere utile la creazione di “zone economiche speciali” con un regime fiscale e amministrativo semplificato.
È necessario che gli strumenti di incentivazione nazionali siano dotati di risorse adeguate per i bisogni del Mezzogiorno, e vanno confermati gli strumenti di sostegno, dagli incentivi per l’autoimprenditorialità ai contratti di sviluppo per l’attrazione di investimenti. Al tempo stesso vanno riconosciute e progressivamente rimosse le croniche inefficienze di sistema che impediscono lo sviluppo dell’area, dalla qualità della pubblica amministrazione all’efficienza della spesa pubblica, dal controllo del territorio al contrasto alla criminalità.
Va ridisegnata in maniera intelligente la governance delle politiche per lo sviluppo, oggi ostaggio del groviglio di competenze dei vari livelli nazionali e locali, rafforzando la funzione di indirizzo e di coordinamento del Governo.
Giustizia
L’inefficienza della giustizia civile è un freno allo sviluppo e alla crescita del paese. Quasi 5 milioni di procedimenti pendenti, una durata media (952 giorni in primo grado e di 3127 giorni per arrivare in Cassazione) doppia rispetto alla media mondiale e tripla rispetto a quella di paesi come Francia e Germania, la fiducia dei cittadini al 29% (contro una media Ocse del 54%) e un costo dei ritardi stimato in 16 miliardi l’anno: un punto di Pil. L’inaffidabilità della giustizia italiana scoraggia gli investimenti esteri e limita la competitività del sistema economico senza contare il danno arrecato all’erario dai risarcimenti. Inoltre la lunghezza e l’incertezza dei processi favoriscono un utilizzo opportunistico del sistema giudiziario: lunghezza e incertezza del processo ne favoriscono l’abuso, ma l’abuso del processo ne esaspera lunghezza e incertezza. È necessario spezzare questo circolo vizioso con misure che aumentino l’efficienza degli uffici giudiziari: in prospettiva una giustizia più rapida, giusta ed efficiente contribuirebbe a scoraggiare il ricorso strumentale al processo, cosa che alleggerirebbe a sua volta il carico di lavoro dei magistrati, oggi elevatissimo.
Dal momento che l’organizzazione del lavoro richiede competenze che i magistrati non sono tenuti a possedere, è necessario prevedere la figura di un dirigente amministrativo che affianchi (o, in alcuni casi, sostituisca) il magistrato responsabile dell’ufficio nell’amministrazione delle risorse e nella gestione operativa, lasciando al giudice il dominio degli indirizzi giurisprudenziali. Una simile innovazione, accompagnata da adeguati criteri di valutazione, trasparenza e meccanismi di responsabilizzazione, avrebbe un impatto benefico sull’efficienza della macchina giudiziaria.
È inoltre fondamentale rafforzare la responsabilità disciplinare dei magistrati, assicurando un’omogeneità di trattamento delle diverse giurisdizioni. E più in generale, occorre rafforzare i meccanismi di interazione e coordinamento tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, valutandone anche il superamento attraverso una profonda revisione costituzionale. Bisogna, infine, superare o quanto meno ripensare profondamente la giurisdizione speciale tributaria, che non assicura pienamente ai cittadini il diritto di difesa.
È necessario arrivare alla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. ll sistema del giudizio penale si regge su un principio basilare, riconosciuto da tutti gli ordinamenti evoluti ed accolto espressamente nel sistema italiano con la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in base al quale chi giudica deve garantire due caratteristiche: terzietà e imparzialità. Il sistema processuale attuale non garantisce, però, ciò che la Costituzione imporrebbe. Giudici e pubblici ministeri, pur giocando ruoli assai diversi in seno al processo, appartengono infatti allo stesso ordine, partecipano delle stesse prerogative, possono spostarsi da una funzione all’altra, siedono negli stessi consigli di disciplina e di autogoverno – valutandosi e giudicandosi reciprocamente – e si aggregano nelle medesime associazioni di categoria. Vogliamo riequilibrare il sistema, concedendo a tutte e due le parti del processo penale (l’accusa e la difesa) le stesse opportunità di partenza nel dimostrare le proprie tesi.
Occorre superare anche quella che Giovanni Falcone definiva la visione feticista dell’obbligatorietà dell’azione penale, che si è rivelata una pura teoria, dalla quale discendono molte delle inefficienze e delle lentezze del nostro sistema giudiziario. Eliminare l’obbligatorietà, regolamentandone l’esercizio costituisce il presupposto per una giustizia migliore e più attenta alle esigenze dei cittadini e alla tutela dei diritti della difesa.
Il carcere si è dimostrato una risposta insoddisfacente per prevenire il crimine. Da un lato le statistiche dimostrano che la detenzione non evita la ricaduta nel crimine, soprattutto nei casi di condanne particolarmente lunghe, dall’altro non offre alle vittime del reato alcun ristoro. È necessario superare il primato della detenzione, in particolare con riguardo ai reati che non offendono la persona, a favore di un sistema di giustizia riparativa, sulla scorta dell’esperienza positiva di altri paesi, nel quale la vittima possa effettivamente trovare ristoro del danno subito e il reo abbia la possibilità di rimediare a tale danno nei confronti sia della persona offesa che della comunità. Vogliamo l’abolizione dell’ergastolo, sia condizionale che ostativo, poiché l’assenza di ogni possibilità di uscita è incompatibile con la finalità rieducativa della pena, prevista dall’art. 27 della Costituzione.
Va evitato l’abuso di provvedimenti emergenziali e di stampo securitario, soprattutto nella gestione di fenomeni complessi quali l’immigrazione e l’esclusione sociale, come invece prevede la riforma Minniti-Orlando. Vogliamo la fine dell’abuso della custodia cautelare, favorendo un uso più ampio delle misure alternative al carcere, già previste dal nostro Codice, e vogliamo mettere fine agli abusi in divisa attraverso l’introduzione del numero identificativo degli agenti delle forze dell’ordine in servizio e l’obbligo delle telecamere nelle caserme.
Diritti civili e libertà individuali
Crediamo nella valorizzazione della libertà e della responsabilità della persona in tutte le fasi che vanno dall’inizio alla fine della vita. Pensiamo che su questi temi l’ancoraggio europeo dell’Italia e la tutela della Corte europea dei diritti umani (Cedu) garantiscano la centralità della persona e dei suoi diritti all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale.
Pensiamo che sui temi della procreazione libera e responsabile la legislazione italiana vada bonificata dagli ultimi residui della regolamentazione imposta a metà degli anni 2000 con la cosiddetta legge 40, in larga misura superata in seguito a pronunce giurisdizionali.
Promuoviamo strategie di legalizzazione e regolamentazione dell’uso delle droghe in un’ottica di riduzione del danno sul consumo personale, nel nome della libertà individuale, della lotta alla criminalità e del contrasto ai profitti delle narco-mafie, della tutela della salute pubblica, della libertà di accesso alle cure e della libertà di ricerca sull’uso medico e scientifico di tali sostanze.
Consideriamo lo ius culturae il modello per la riforma della legge sulla cittadinanza e ci impegniamo a sostenerlo fin dall’inizio della prossima legislatura, per offrire a tutti i giovani le stesse opportunità di vita in un paese laico, democratico e aperto al mondo.
Dopo l’approvazione della legge sul testamento biologico riteniamo importante che il parlamento si impegni a discutere le proposte di legge in tema di fine vita a partire da quella di iniziativa popolare già depositata alla Camera dei deputati. È altrettanto importante che il parlamento discuta una riforma del diritto di famiglia nella prospettiva di superare le discriminazioni in materia di matrimonio, unione civile, adozione, riconoscimento automatico dei figli alla nascita e opportunità dei figli di genitori separati.
Sosteniamo la battaglia per l’istituzione di un’agenzia nazionale autonoma e indipendente per la tutela dei diritti umani che favorisca la prevenzione delle discriminazioni e la difesa delle libertà fondamentali in ottemperanza alle risoluzioni ONU ratificate dall’Italia.
Mercato del lavoro
Per vent’anni lo scontro sull’articolo 18 è stato così totale da suscitare l’impressione che contenesse la totalità dei problemi da risolvere. L’Italia rimane invece un Paese con bassa occupazione, bassa produttività e bassi salari. Tutti sintomi di una malattia che ha cause in tutto o in parte diverse dalla rigidità del mercato del lavoro, ma che hanno a che fare con la totalità dei fattori di produttività. Il modello di flexsecurity del Jobs Act, basato su una maggiore flessibilità in uscita attraverso la riduzione delle tutele in caso di licenziamento e su una copertura quasi universale dei sostegni al reddito per chi ha perso il lavoro, non è quindi da considerare la panacea di tutti i mali, ma una tessera di un puzzle di riforme ancora da realizzare, anche al di fuori dell’ambito specifico del mercato del lavoro.
È necessario andare nella direzione della costruzione di un vero mercato del lavoro europeo, interdipendente e integrato, sperimentando forme di apprendistato e mobilità formativa a livello continentale. In particolare, bisogna introdurre una forma di sussidio di disoccupazione europeo come strumento di stabilizzazione degli shock asimmetrici.
Nella cornice della contrattazione collettiva nazionale serve rafforzare la contrattazione aziendale, territoriale o di filiera per incrementare la flessibilità organizzativa e redistribuire ai dipendenti la produttività realizzata in azienda, occorre anche stimolare percorsi di partecipazione organizzativa all’interno delle aziende, sperimentando forme di partecipazione alla decisione aziendali per le aziende quotate. Per avere relazioni industriali stabili, trasparenti ed efficaci serve una legge sulla rappresentanza sia per le associazioni datoriali che per le organizzazioni sindacali al fine di garantire efficacia erga omnes effettiva a tutti i lavoratori, prevedendo anche forme di tutela retributiva per quei lavoratori esclusi dalla contrattazione collettiva mediante un minimo retributivo legato ai contratto di riferimento stabilito dalle parti sociali. Una legge sulla rappresentanza è anche necessaria per potere al meglio prevenire gli abusi del diritto di sciopero, specialmente nei servizi pubblici.
Serve un piano di politiche attive per il lavoro che coinvolga la scuola e l’università, i centri per l’impiego, gli enti locali e le imprese. In particolare è urgente riformare i centri per l’impiego, strutturalmente inadeguati a mettere in contatto domanda e offerta di lavoro in tempi rapidi, precondizione per la sostenibilità finanziaria dei nuovi ammortizzatori sociali. Vogliamo incentivare misure che spingano le aziende a creare posizioni di mentoring per i lavoratori più giovani su cui spostare quelli più anziani, per favorire la trasmissione delle competenze e la formazione dei giovani sul luogo di lavoro ed evitare l’allungamento del tempo di lavoro su mansioni usuranti.
Il maggior coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro e il raggiungimento di un vero equilibrio di genere sono condizioni essenziali per la crescita del nostro paese. A fronte di una maggiore scolarizzazione rispetto agli uomini, la presenza delle donne nel mercato del lavoro è largamente inferiore alla media europea e la loro retribuzione è molto più bassa. Per modificare questa situazione occorre mettere a disposizione delle donne strumenti molto più efficaci per la conciliazione tra lavoro e famiglia. In particolare, occorre continuare a intervenire sul piano dei servizi, e in particolare degli asili nido, assicurandone anche il funzionamento in orari che consentano alle donne il pieno svolgimento della propria attività lavorativa. È anche importante promuovere il ritorno delle donne al lavoro dopo la maternità, con strumenti che le garantiscano sotto il profilo della retribuzione e dell’inquadramento professionale. Va superato il congedo di maternità in favore del congedo parentale, di cui possono usufruire sia gli uomini che le donne.
Seguendo l’esempio di legislazioni europee virtuose (ad esempio quella tedesca), occorre arricchire l’attuale normativa prevedendo un sistema di controlli efficaci e di sanzioni significative al fine di accompagnare realmente per il futuro le aziende a rendere uguali i valori retributivi tra uomini e donne per le medesime tipologie di impiego o di mansioni svolte. Inoltre, è opportuno che le stesse aziende rendano conoscibili e diano evidenza dei livelli salariali adottati al proprio interno.
Previdenza
Il sistema previdenziale è il principale contratto sociale tra le generazioni. La sua insostenibilità finanziaria e la sua iniquità non ha solo comportato l’aumento del peso delle pensioni sul PIL e sul complesso della spesa sociale, ma ha rappresentato negli ultimi decenni la principale ragione di debolezza del nostro sistema di welfare. La riforma Fornero ha garantito la sostenibilità del nostro sistema previdenziale, ma ne ha ridotto solo parzialmente le iniquità generazionali legate a scelte passate – in materia di età pensionabile e di remunerazione dei contributi versati – in larga misura non reversibili. Nondimeno, questa che rappresenta la vera e principale emergenza del nostro sistema previdenziale è del tutto elusa nel nostro dibattito pubblico.
La discussione è invece interamente assorbita dal problema dell’età di pensionamento e dall’identificazione della vecchiaia come “età della povertà”. Anche in questo caso è vero il contrario, visto che la povertà riguarda oggi il 4% degli italiani con più di 65 anni, ma ben il 12% dei giovani sotto i 18 anni. È anche questo il prodotto di un processo storico, non solo remoto, ma anche relativamente recente. Ancora nel 2001 la spesa per pensioni “di vecchiaia” superava per importo complessivo quello per le pensioni “di anzianità”. Invece, la situazione si è capovolta proprio nel periodo dalla più dura e inconcludente discussione sulla riforma post “legge Dini”. Negli anni 2000, vi sono stati circa 3,5 milioni di nuovi pensionati con un’età media di pensionamento di 57-58 anni, e con prestazioni per lo più medio-alte.
Dal punto di vista programmatico, bisogna proseguire, non tornare indietro sulla strada delle riforme. Non solo non bisogna toccare la riforma Fornero, ma bisogna difendere l’idea che l’equità intergenerazionale oltre a essere dovuta in attuazione del principio costituzionale di uguaglianza, è una forma di moralità e responsabilità politica. Da questo punto di vista, pur ammettendo che non sia possibile un vero ricalcolo contributivo delle pensioni in corso di erogazione, è possibile ricorrere alla riduzione, di fatto autorizzata anche dalla Consulta, del sussidio fiscale incorporato nelle pensioni retributive più alte.
Nell’ottica di rendere effettiva e tangibile l’equità intergenerazionale, riteniamo necessario introdurre a favore dei giovani neoassunti fino a 35 anni forme strutturali di decontribuzione di parte degli oneri sociali che consentano di destinare parte delle disponibilità aggiuntive così ottenute alla previdenza integrativa.
Povertà
L’obiettivo centrale della riforma del welfare deve essere quello di sconfiggere la povertà giovanile. Secondo il rapporto Caritas 2017, il rischio di povertà riguarda circa 2 milioni di persone tra i 16 e i 24 anni, ovvero il 33,7% dei giovani italiani: una percentuale del 6,4% più alta rispetto alla media europea. Il tasso di disoccupazione è circa il doppio della media europea. Ancora più significativo è che egli ultimi 20 anni la ricchezza delle famiglie con capofamiglia fino a 34 anni si è dimezzata, mentre quella delle famiglie in cui il capofamiglia ha almeno 65 anni è cresciuta del 60%. Nonostante questo, solo il 37% della spesa non previdenziale è destinato agli under 40. Occorre rivedere il nostro welfare e aumentare questa percentuale almeno fino alla media europea, con interventi mirati e miglioramento dei servizi, soprattutto a favore delle donne e delle famiglie giovani.
Contributi alla formazione, sostegno al reddito e servizi che consentano alle donne di conciliare famiglia e lavoro sono le nostre priorità per garantire giustizia sociale e per promuovere la crescita del nostro paese, che deve avere in giovani e donne i suoi principali protagonisti. Occorre anche aumentare la quota del Fondo Sociale Europeo destinata all’accesso al lavoro e all’inclusione sociale. Secondo gli ultimi dati, l’Italia ha destinato i fondi europei a queste finalità una quota pro capite di soli 48,7 euro, a fronte di una media europea di 77,1 euro pro capite. Bisogna arrivare almeno alla media europea e anzi superarla, perché in Italia il problema è più grave che negli altri paesi.
I nuovi fenomeni di povertà richiedono politiche di contrasto basate non solo su sostegni al reddito temporanei, ma soprattutto su politiche d’inclusione nel mondo del lavoro e sull’adeguamento delle competenze dei lavoratori spiazzati dalla globalizzazione alla nuova domanda di professioni tecniche e altamente qualificate. Ci prefiggiamo l’obiettivo di contrastare la povertà assoluta e di contenere quella relativa attraverso una riforma complessiva del welfare non previdenziale, nell’ottica di una più equa ridistribuzione delle risorse e una migliore corrispondenza ai bisogni reali, attraverso una rimodulazione delle prestazioni che preveda l’abrogazione di alcune misure esistenti e la loro sostituzione con nuove prestazioni fondate su principi di maggiore equità sociale. Per questo proponiamo un strumento di sostegno al reddito universale rivolto a tutti coloro che si trovano in povertà assoluta, che colmi la distanza tra le risorse economiche della famiglia e la soglia di povertà assoluta, che vari in base al numero e all’età dei componenti della famiglia e al comune di residenza. Sono necessarie misure che abbinino al trasferimento monetario e alla fornitura di servizi anche interventi d’inclusione attiva per responsabilizzare i beneficiari e favorire l’ingresso nel mercato del lavoro.
Immigrazione
Sosteniamo con forza un’idea di società plurale e aperta, dove la libertà di movimento – delle persone, dei capitali e delle merci – sia considerato il principale motore di sviluppo sociale e culturale oltre che economico. Per questo crediamo che l’attuale legislazione italiana in materia di immigrazione vada radicalmente modificata perché impedisce l’integrazione degli stranieri nella società e nel mercato del lavoro, generando irregolarità, lavoro nero, emarginazione sociale e insicurezza per tutti. Con la chiusura dei confini degli altri paesi europei, l’Italia è passata dall’essere paese di transito a paese di arrivo. Per ottenere un sistema di integrazione efficace che riesca a inserire gli stranieri nel mercato del lavoro riteniamo fondamentale a livello nazionale il superamento della legge Bossi-Fini.
E’ necessario introdurre meccanismi diversificati di ingresso per lavoro, a partire da un permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di occupazione attraverso attività d’intermediazione pubbliche e private tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri e dalla reintroduzione del sistema dello sponsor, e forme di regolarizzazione su base individuale degli stranieri irregolari già presenti sul territorio – anche nel caso di richiedenti asilo cui è stata negata la protezione – qualora sia dimostrabile la disponibilità in Italia di un’attività lavorativa o di formazione o l’esistenza di legami familiari, sul modello spagnolo del “radicamento”.
Il sistema di accoglienza va migliorato, con l’adozione esclusiva del modello SPRAR e migliorando la qualità dei servizi attraverso meccanismi di monitoraggio efficaci. Ma è necessario investire maggiormente su formazione e lavoro, valorizzando le forze produttive del territorio e mettendo i centri per l’impiego nelle condizioni di erogare con efficacia servizi di formazione e avviamento lavorativo attraverso appositi sportelli per l’integrazione da finanziare, a livello nazionale e regionale, ricorrendo ai fondi europei.
A livello europeo, è necessario introdurre canali legali e sicuri di ingresso per lavoro, anche non qualificato, implementare i programmi di reinsediamento e la creazione di corridoi umanitari per le persone bisognose di protezione. È necessario garantire mobilità interna a quanti giungono nel territorio europeo e chiedono protezione, modificando finalmente il Regolamento di Dublino: lo Stato membro competente per la domanda d’asilo va determinato tenendo conto innanzitutto delle esigenze familiari o umanitarie del richiedente asilo, nell’ambito di un sistema equo di redistribuzione.
Salute
Per effetto della regionalizzazione si è progressivamente accentuata la disparità di offerta sanitaria sul territorio nazionale. Occorre porsi pertanto l’obiettivo di correggere questa deriva e di garantire le medesime cure a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro residenza regionale, anche attraverso la modifica della ripartizione di competenze fra Stato e regioni.
Non esistono sistemi diffusi di valutazione delle prestazioni e delle strutture, né informazioni pubbliche e accessibili a tutti sugli esiti delle valutazioni; la sanità è autoreferenziale e l’utente conta poco o nulla, come certificato da indici di valutazione europei (Euro Health Consumer Index, che ci vede fra gli ultimi in confronto ai paesi dell’Europa occidentale). È necessario introdurre sistemi di valutazione obbligatori per le prestazioni, i servizi e le strutture in tutto il territorio nazionale e informazioni e accessibilità dei risultati per tutti.
Attualmente la sanità delle regioni viene commissariata esclusivamente in caso di deficit eccessivo. È necessario introdurre la procedura di commissariamento anche in caso di scarsità (quantitativa e qualitativa) di servizi erogati, compreso il mancato rispetto dei tempi massimi d’attesa per gli esami diagnostici definiti per legge. Il Commissario (nominato dal Governo) deve essere un esperto esterno alla regione commissariata. Considerato che l’invecchiamento della popolazione costituisce un fattore di crescita della domanda di prestazioni sanitarie, può essere utile prevedere una soglia minima di finanziamento, calcolato in percentuale al PIL di ogni paese, unitamente a una soglia minima di qualità delle prestazioni e dei servizi erogati.
L’allocazione delle risorse è ancora troppo concentrata sulle cure per acuti mentre l’emergenza dovuta all’invecchiamento richiederebbe maggiori stanziamenti per la cura delle cronicità e disabilità. Per questo proponiamo uno spostamento progressivo della spesa sanitaria in questa direzione. Un’altra azione importante è la piena informatizzazione del SSN, con l’obiettivo di realizzare la completa operatività su tutto il territorio nazionale del Fascicolo Sanitario Elettronico e delle ricette digitali, la dematerializzazione di referti e cartelle cliniche nonché il sistema di fatturazione elettronica delle prestazioni farmaceutiche.
Roma, 18 gennaio 2018
Emma Bonino
Riccardo Magi
Benedetto Della Vedova
Bruno Tabacci