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- Inserito da: Antonio Toni Bo...
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La comunità europea, come il resto del mondo, continua un percorso di crescita nell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a tutti i livelli, ma la frammentazione intra ed inter-stato genera un quadro complessivo problematico.
Sicuramente il WEB è potenzialmente un luogo di espressione dei diritti del cittadino, uno strumento di partecipazione alla vita democratica di un paese e un potente mezzo di aggregazione, di diffusione ed elaborazione di idee ed informazioni. Ma può essere tutt’altro: da strumento di propaganda e falsificazione, ad amplificatore delle follie più originali; da strumento di protesta fine a se stessa, di vilipendio o sterile polemica, a strumento di distrazione di massa.
In uno Stato moderno, la garanzia dei diritti di cittadinanza digitale si può paragonare a quella del diritto all’istruzione nel secolo scorso. In ognuno dei principali stati europei, la lotta alle varie forme di “isolamento digitale” partiva da storie diverse e viaggiava a diverse velocità, ma da una prima politica che mirava unicamente ad aumentare il numero degli accessi al WEB, si è passati - con “ICT for an inclusive society” - ad un approccio rivolto verso l’accessibilità e l’inclusione sociale di quelle categorie “a rischio” che non hanno sufficienti “skill” per usufruire dei propri diritti digitali.
Sia negli Stati Uniti che in Europa sono state individuate correlazioni tra età, sesso, istruzione, reddito, partecipazione politica e uso di internet. In pratica l’utilizzo della rete è più diffuso fra le nuove generazioni e leggermente più alto nei maschi, ma muta da un utilizzo orientato alla fruizione di servizi Social, attività che richiedono una “Digital Skill” più bassa, ad un utilizzo di servizi complessi e di strumenti di ricerca ed informazione, attività che richiedono una skill più alta.
Su una popolazione di circa mezzo miliardo di persone nell’Unione Europea, tre su quattro sono connessi alla Rete e due su cinque hanno una pagina Facebook. Valori simili a quelli USA, dove per Facebook il dato è di tre su cinque, e con i quali si copre circa un quarto degli utenti mondiali di Internet, mentre un altro quarto sono gli utenti cinesi.
L’Eurostat ci informa che su una connessione media europea del 79% delle famiglie, la percentuale è più alta in Francia (79,6%), in Germania (83%), in UK (83,6%), mentre in Italia è del 58,4%, agli ultimi posti tra Grecia, Bulgaria e Romania. La velocità della banda larga confermano questi dati e
l’Italia si piazza penultima con 4,9 megabit per secondo, la Francia con 6,5 Mbps, la Germania con 7,6 Mbps, il Regno Unito con 9,1 Mbps.
C’è un divario tra chi utilizza il WEB per generiche ricerche o social network (circa il 40%) e chi invece lo utilizza come strumento di informazione consapevole e partecipazione alla vita collettiva (circa il 10%): appare sciocco inseguire il bacino più grande quando la comunicazione si rivolge ad individui capaci di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni di vita quotidiana.
Gli individui capaci di compiere le azioni basilari su un computer sono il 72% di tedeschi e inglesi, il 67% dei francesi ed il 54% degli italiani, evidenza che fa dell’Italia il paese più funzionalmente analfabeta d’Europa, con il 47% di individui tra i 16 e i 70 anni incapaci anche di leggere un testo articolato e di capirlo (21,8% in UK, 19,8 in Francia e 14,4% in Germania).
Per trovare ulteriori conferme rispetto alla frammentazione strutturale che ostacola la crescita di una popolazione europea che ancora non esiste in quanto tale, in un campo che fa di una forma di individualismo particolarmente disimpegnato ed isolazionista, accentuato dal rapporto mediato che il computer crea, una propria caratteristica importante, basta dare uno sguardo alla classificazione delle tipologie di siti visitati dagli europei (sistema ranking di Alexa).
Sensibili sono le differenze dopo le prime posizioni solidamente occupate da Google, Facebook e YouTube, ma una divisione di siti per tipologia ci rende più chiaro il quadro delle prime 20 posizioni in relazione alla qualità del traffico fruito. In Italia sei sono coperte da motori di ricerca e portali con servizio e-mail (4 in UK, 7 in Germania, 3 in Francia); cinque da social network e blog e servizi di streaming (7 in UK, 5 in Germania, 5 in Francia); tre da quotidiani o Tv (4 in UK, 3 in Germania e tre pure in Francia, ma con posizioni notevolmente diverse in tutti i casi qui espressi); tre da servizi finanziari o e-commerce (4 in UK, 3 in Germania, tre in Francia); ed infine 6° posto per Wikipedia in Italia, e 14° per un sito di giochi online (9° per Wikipedia in UK, 7° in Germania, 5° in Francia, che vede pure due compagnie di telefonia ed una di un sito per adulti tra le prime 20 posizioni).
Le percentuali di utenti internet che usano il più diffuso social network e la media delle ore di utilizzo giornaliere (quello del film omonimo per intenderci - https://farefilm.it/visioni-e-recensioni/cinque-film-su-internet-e-i-social-network-5009 ) possono ulteriormente aiutare la definizione dei quadri nazionali: nel Regno Unito sono il 65% per 1,9 ore/giorno; in Germania il 40% per 1,4 ore/giorno; in Francia il 51,5% per 1,5 ore/giorno; in Italia il 73% per 2,5 ore/giorno.
A prescindere da qualche banale stereotipo, tipo lo spirito ludico degli italiani, i dati qui raccolti vedono un Regno Unito che ha un utilizzo del WEB come fonte di notizie più sviluppato che in altri paesi, e la percezione dell’opportunità di guadagno secondo solo ai tedeschi. La popolazione francese sembra invece più affannata ad acculturarsi su Wikipedia con scarsa propensione ad informarsi su cosa succede nel resto del mondo, mentre il popolo italiano – monopolizzato da la Repubblica e Corriere della sera – continua a usare la maggior parte del suo tempo sul WEB per fare ciò che gli riesce meglio e con meno fatica, ovvero chiacchierare su Facebook.
Tutto ciò è sintomatico di una Europa di internet che non ha nulla di diverso, né come auto-percezione né come integrazione, da quella che vediamo nelle piazze, nelle scuole, nei seggi elettorali o sugli scranni del Parlamento europeo, e che è ancora più profondamente impacciata davanti alle sfide della modernità. Un’Unione che non unisce. Le istituzioni europee nutrono una burocrazia pantagruelica, il sistema bancario è cosa altra rispetto al potere politico e gli stati continuano a non uscire da una logica che fa della UE un accordo in cui c’è chi vince e chi perde, in ogni caso mantenendo un ottuso nazionalismo il cui superamento ispirava il manifesto di Ventotene.
Tutti i grandi flussi di informazioni continuano ad avere come terminale gli Stati Uniti, sia perché Internet e la maggior parte delle Società che ci giganteggiano sono “born in the USA”, sia perché solo uno stato con un enorme peso politico internazionale riesce ad evitare con sforzi enormi (si guardi al caso cinese) il controllo e l’orientamento dei suoi consumi, digitali e non, da parte degli americani che attualmente hanno spostato il business dal mercato dei prodotti al mercato delle idee.
In quest’ottica non è casuale che anche la provenienza degli attacchi di Hacker abbiano una collocazione geopolitica ben definita: vediamo che il 35% proviene dalla Cina, il 20% dall’Indonesia, l’11% dagli Stati Uniti, il 5,2% da Taiwan ed il 2,8% dalla Russia.
L’Europa non è percepita dal resto del mondo e da se stessa come una comunità economica, sociale e politica, ma semplicemente come un mercato ricco facile da sfruttare.
Per capire, in estrema sintesi, l’evoluzione e quindi il significato del WEB, dobbiamo iniziare dagli esordi, cioè dal WEB 1.0. Non che all’inizio si chiamasse proprio così, molto semplicemente parlando del Web ci si riferiva ad esso – appunto – con il termine WEB.
Il suffisso 1.0 è stato aggiunto a posteriori, per differenziare questa prima tipologia di Web rispetto alle evoluzioni successive. Siamo ormai giunti al WEB 2.0 e si parla da qualche anno di WEB 3.0.
Il WEB degli esordi era caratterizzato dalla presenza di siti web statici: in pratica l’utente poteva visitare i diversi siti web, navigare tra le pagine, leggerne i testi e fruirne i contenuti, passare da un sito a un altro tramite i link, cioè tramite i collegamenti ipertestuali eventualmente presenti tra un sito e un altro. La ricerca di informazioni veniva effettuata grazie ai motori di ricerca che davano – come risultati – una serie di pagine/siti rispondenti a quanto cercato. L’utente non poteva in alcun modo interagire con i contenuti dei siti: li doveva fruire così com’erano.
Con il WEB 2.0 diventano centrali, invece, la collaborazione, la condivisione, l’interazione tra utente e sito. Se il WEB 1.0 si poteva definire statico, il WEB 2.0 è decisamente dinamico. Non che per “creare” il WEB 2.0 siano state necessarie tecnologie particolarmente complesse, nuove o appositamente create. Più semplicemente sono state “messe insieme” ed usate in modo diverso tecnologie in parte già esistenti e in parte nuove. Per questo, non trattandosi di tecnologie completamente nuove, per molti il termine WEB 2.0 sarebbe stato coniato appositamente solo per spingere su alcune piattaforme e tecnologie specifiche.
Quello che conta è che con il WEB 2.0 si passa da un web statico a uno di tipo dinamico e sociale: l’utente non è più solo un lettore, un consumatore passivo di contenuti, ma li crea direttamente (o contribuisce a crearli) e li condivide.
Se il WEB 2.0 è partecipazione, va da sé che la possibilità – per esempio – di creare dei blog personali sui quali dire esattamente cosa si pensa o con i quali condividere pubblicamente le proprie competenze ha portato a un aumento enorme di contenuti, sia come tipologia sia come mole.
Calcolando che però, come sempre accade quando si parla di tecnologia, l’evoluzione è incessante, si sta già parlando di WEB 3.0. Cosa caratterizzerà (o caratterizza, visto che i primi esempi sono già tra di noi) il WEB 3.0 ? Pare che le parole chiave di questa ennesima “versione” del web siano openness e semantica. In soldoni: apertura, trasparenza, vastità (di dati e di loro utilizzo/riutilizzo) ma anche accesso più semplice ai risultati (e ai dati) grazie al riconoscimento del vero significato che i dati stessi hanno rispetto al contesto in cui sono stati creati (semantica).
Già, perché passando dal WEB 1.0 al WEB 2.0 ci siamo portati a casa un problema: prima c’erano troppi pochi dati e informazioni e spesso le nostre ricerche non davano i risultati sperati; ora i dati sono tantissimi – a volte perfino eccessivi – e districarsi tra di essi (il motore di ricerca è un software, non una persona!) per proporre all’utente solo quelli veramente significativi è sempre più difficile.
Lo possiamo vedere effettuando una qualsiasi ricerca: i risultati che Google ci propone sono sì “a tema” rispetto alle parole che abbiamo cercato, ma quando la ricerca si fa un po’ specifica spesso notiamo che i risultati sono giusti rispetto alle parole chiave ma non sempre giusti rispetto al contesto. Ecco, proporre risultati in tema rispetto al contesto fa parte degli obiettivi del web semantico, cioè del WEB 3.0.
In estrema sintesi, ecco l’evoluzione del web:
1. WEB 1.0: collegamenti ipertestuali (link) tra contenuti diversi. Il web connette l’informazione.
2. WEB 2.0: partecipazione degli utenti. Il web connette le persone.
3. WEB 3.0: trasparenza dei dati e loro riutilizzo per fini diversi. Il web connette i saperi.
Nel caso del WEB 2.0, poiché parliamo di un web che connette le persone, pariamo anche di un web sociale o Social Web che dir si voglia. In altre parole Social Media, cosa che merita una trattazione a parte, anche per distinguere a dovere il senso dei numeri e della loro valenza, anche in prefigurazione di ciò che a breve sarà. Forse ce ne sarà occasione.
(Articolo derivato da uno studio fatto da Roberto Granese per il numero 110 di Quaderni Radicali)